Qualche mese fa, rispondendo ad accuse di fascismo, un membro del governo ha ribadito che il fascismo è finito con la morte di Mussolini.
Ma quale fascismo è finito? Se ci riferiamo agli aspetti esteriori, la camicia nera, il manganello e tutta l’iconografia connessa che certamente oggi farebbe ridere non pochi, anche se qualcuno ancora conserva il busto del Duce o, addirittura, se lo va a comprare nei negozi di Predappio, insieme ad una nutrita collezione di T-shirt nere con i motti più importanti del regime. Se ci riferiamo a quel fascismo è finito perché non è più coerente con i mezzi comunicativi moderni. Se ci riferiamo alla RSI con le sue torture e fucilazioni, limitandoci a rivelarne la crudeltà, come fa certa propaganda di sinistra, esponendosi al rischio di ritorsione dell’accusa di crudeltà, anche quello non è più di attualità.
Ma esistono molte altre forme di fascismo “moderno”, una sorta di soft-fascismo, forse peggiore di quello retorico e tronfio del passato.
Alle sue origini il fascismo era un movimento rivoluzionario che mirava alla sovversione del vecchio, ma presto si avvicinò alle posizioni degli industriali del nord e dei latifondisti del sud, entrambi terrorizzati dalle rivendicazioni dei socialisti. E questa alleanza si sta riproponendo esattamente nella stessa maniera, anche se in modo più subdolo.
Si compiace l’industriale opponendosi strenuamente a fissare un tetto minimo ai salari con l’argomento, per la verità risibile, che porterebbe ad una compressione verso il basso; è poco chiaro come fissare un tetto inferiore impedisca gli aumenti.
La limitazione imposta dal Ministro dei Trasporti allo sciopero nazionale dei mezzi pubblici potrebbe essere interpretato come un attacco alla libertà di sciopero. Dall’altra parte si dichiara di voler colpire l’immigrazione illegale, il “traffico di esseri umani”, con misure del tutto insufficienti, ma non si muove un dito contro i maggiori utenti di questa nuova schiavitù, il caporalato, che, almeno nel meridione fa capo alle attività agricole. Basterebbe mandare degli ispettori del lavoro per capire come funziona la mano d’opera agricola.
Un’altra caratteristica del fascismo è il nazionalismo, un nazionalismo che si affaccia, sia pure in maniera problematica, nella retorica della destra di oggi. Fra l’altro va deplorato il fatto che il tronfio nazionalismo del fascismo prima maniera ha avuto il negativo effetto di rendere odioso anche il termine patriottismo, che, invece, designa un sentimento giusto di attaccamento al proprio paese.
Certo, non si sente più far riferimento alla quarta sponda, che risulterebbe ormai ridicolo, ma il “prima gli italiani”, il continuo insistere su un recupero, da verificare nei fatti, di credibilità internazionale, la retorica del “made in Italy”, quella che viene usata per respingere la carne coltivata o la farina di insetti sono tutti fenomeni, più retorici che reali, che si collocano tra il nazionalismo cieco e la figlia prediletta “autarchia”.
Fra l’altro si tratta di temi che, insieme all’antieuropeismo della campagna elettorale, vengono giornalmente disattesi. L’Italia viene difesa nelle cose spicciole, ma i grandi asset come la telefonia e le infrastrutture vengono allegramente alienate senza curarsi se il capitale entrante sia “prima italiano” o venga da fuori. E questo fa sorgere il dubbio che ci si trovi di nuovo di fronte a quel vizio che condannò anche il fascismo del ventennio, cioè una propaganda tronfia e bombastica cui non corrispondeva, e forse non corrisponde alcuna realtà.
Il razzismo non può essere attribuito solo al fascismo, che lo praticò nella duplice forma dell’antiebraismo e nell’immagine della “razza nera” inferiore bisognosa e felice di essere colonizzata. È un fenomeno che, secondo molti storici, nasce prima del fascismo; quest’ultimo lo ha solo perfezionato. Il razzismo sta prendendo altre forme, quelle di una dichiarata e pubblicizzata guerra all’antisemitismo, cui si oppone un altrettanto pubblicizzato anti-islamismo giustificato dal fatto che “non sono integrabili nella nostra società”.
C’è, poi, un aspetto più sottile che può notare bene chi si occupa di lingua e di comunicazione, la logica dell’azione. Il governo, di destra, agisce e non chiacchiera, non fa inciuci, reagisce con velocità (termine usato recentemente dalla premier). Un atteggiamento che ricorda un po’ il futurismo di Marinetti, che prestò un sostegno ideologico al fascismo.
La politica del fare fu introdotta da Berlusconi, opposta alle chiacchiere; eppure le mediazioni si basano sulla trattativa, l’argomentazione, la parola. Ironicamente si potrebbe dire che la politica del fare, se non è preceduta da attente discussioni, rischia di essere la politica del far male. L’inciucio è quello che una volta si chiamava trattativa, accordo tra partiti e cha ha sostenuto la rinascita dell’Italia del dopoguerra con un certo successo. E la velocità, tema esplicitamente introdotto da Marinetti, giustifica procedure poco rispettose del dibattito. La cosa che più preoccupa è proprio il linguaggio che viene usato, che tende a demonizzare il confronto, la discussione, gli accordi come perdite di tempo. Ma non è questo un modo indiretto di demonizzare il pluralismo? Non è una bella preparazione al totalitarismo?
Se poi aggiungiamo che si prospetta una legge elettorale con premi del 55% la strada seguita è evidente.
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